Alla fine della strada l’unica cosa che conta è avere qualcuno che ti vuole bene.
La stanza di Mario era proprio di fronte all’infermeria. Un vantaggio, per certi versi, una maledizione, per altri. Da una parte era un bene tenere sempre d’occhio i casi critici, i pazienti più a rischio, dall’altra significava avere una finestra spalancata in permanenza su un panorama devastato dalla sofferenza da cui soffiava un vento gelido che arrivava dritto al cuore.
Il dolore cui non puoi porre rimedio alla lunga ti logora dentro, e io ne avevo già assorbito in quantità sufficiente per una decina di vite.
I reparti di medicina erano lazzaretti moderni. I malati passavano attraverso una serie di filtri sovrapposti: i casi clinici più interessanti prendevano la via dei reparti specialistici, quelli che rimanevano finivano da noi, il che includeva le persone la cui battaglia per la guarigione era ormai perduta da tempo, come Mario.
Microcitoma, o carcinoma polmonare a piccole cellule, con metastasi epatiche, ossee e cerebrali
Era arrivato dal DEA una settimana prima, come al solito senza preavviso, steso su una barella troppo stretta per lui, con una bombola di ossigeno poggiata tra le gambe e la ventimask di plastica trasparente tenuta ferma sul volto da un elastico verde bottiglia.
Eravamo a metà del giro serale della terapia quando i colleghi del DEA erano usciti dall’ascensore spingendo la barella.
«Lui è vostro» mi aveva detto uno dei due sventolando la cartella di pronto soccorso. «Chirurgia toracica, siete voi, giusto?»
Eravamo noi, ma c’era un problema logistico di non poco conto.
«Non abbiamo posti letto uomo liberi» avevo risposto.
«Ma medicina interna H siete voi?»
«Siamo noi, ma devo sentire il medico di guardia.»
In realtà sapevo perfettamente come sarebbe andata a finire.
Il mio reparto aveva 20 posti letto, sulla carta,
ma potevano essere autorizzati fino a un massimo di 4 posti in sovrannumero ricavati aggiungendo un terzo letto in stanze che ne ospitavano due, i famigerati bis. In tutto questo, discorsi come dotazione organica insufficiente e qualità dell’assistenza ridotta ai minimi termini avevano meno spazio di quello che rimaneva libero nelle stanze a tre letti. L’unica clausola, non scritta e raramente rispettata, era che non dovesse trattarsi di pazienti critici, ma Mario a occhio e croce rientrava a pieno titolo nella categoria.
La mia collega aveva chiamato il medico di guardia divisionale, una delle professoresse del reparto. Era arrivata pochi minuti più tardi con un’espressione annoiata sul volto. Ero in quel reparto da poco, e non la conoscevo bene, ma la prima impressione non era stata buona.
«L’hanno mandato senza neanche fare una telefonata» l’avevo informata.
«Eh sì, fanno sempre così.»
«E le sembra una cosa normale?»
«Lei da che reparto viene?» mi aveva chiesto, per tutta risposta.
«Malattie infettive.»
«È abituato male. Qui funziona così. Lo fanno tutte le volte.»
«Che lo facciano sempre l’ho notato, ma da qui a dire che sia una cosa giusta o anche solo normale ce ne passa» avevo obiettato.
«È un paziente critico, e io sono costretto a farlo aspettare su una barella
in attesa di un posto letto che non esiste ancora. Da me questo non sarebbe successo perché i medici avrebbero fatto filtro.»
Era un colpo basso, me ne rendevo conto, ma ero esasperato e stanco di correre a vuoto per la corsia a causa di problemi organizzativi incancreniti da anni a cui i miei colleghi si erano ormai rassegnati. Ogni maledetto giorno correvamo come pazzi per fornire livelli assistenziali a malapena sufficienti. Non sapevo se essere o meno contento del fatto di aver conservato la forza di arrabbiarmi, secondo i miei colleghi sbagliavo io a prendermela, ma se l’alternativa era accettare quella situazione preferivo continuare a lottare contro i mulini a vento.
Come prevedevo, alla fine eravamo stati costretti a spostare un paziente non critico per far posto a Mario, ma almeno avevo chiarito il mio punto di vista. Pirro sarebbe stato orgoglioso di me.
Nei giorni successivi per Mario le cose erano andate peggiorando rapidamente,
con i dolori che non gli davano tregua un istante. Le cure igieniche gli provocavano una sofferenza insopportabile, e nonostante l’adesione formale della mia azienda al progetto Ospedale senza Dolore, di fare una terapia antalgica seria non se ne parlava neanche. Gli avevano montato un elastomero, una specie di pompa che sfruttava l’elasticità di un palloncino di gomma inserito in un contenitore di plastica trasparente per infondere farmaci a ritmo controllato e costante, il che in teoria era una cosa buona. Il problema era il farmaco con cui era stato caricato. Sarebbe stato blando anche in caso di una modesta cefalea: nelle condizioni di Mario era come cercare di fermare un rinoceronte infuriato usando una cerbottana caricata con palline di carta masticate.
L’ultima notte era stata un inferno
Mario si era svegliato ogni ora urlando dal dolore. Avevamo tentato di arginarlo con ogni mezzo disponibile, ma paracetamolo, FANS e oppiodi deboli avevano fatto pochissimo effetto. Alle 3 di notte ero riuscito a convincere il medico di guardia a prescrivere la morfina, sia per via orale che tramite elastomero. Era stata una sorta di moral suasion, cui per fortuna aveva dato ascolto, il che non era affatto scontato, come sapevo per esperienza.
L’uso della morfina in ospedale era mal visto e spesso la si lesinava anche a pazienti in stato terminale. Una volta avevo visto un medico prescrivere del Naloxone a un paziente con un carcinoma del pancreas all’ultimo stadio che dormiva profondamente dopo un’iniezione di morfina, come se si fosse trattato di un tossicodipendente in overdose, solo perché i parenti si erano lamentati del fatto che non fosse vigile. L’uomo, un sessantenne scheletrico dalla pelle giallastra che pareva trent’anni più vecchio, si era svegliato dopo pochi minuti a causa del dolore lancinante.
Due giorni dopo, quando tornai in reparto dopo il riposo,
Mario era in coma. Era sempre stato molto seguito dai parenti, almeno un membro della famiglia era sempre presente, ma quella mattina c’erano tutti. Un paravento divideva il suo letto da quello del vicino.
Spesso mi trovavo a riflettere su quanto poco sapessimo dei pazienti, di ciò che erano stati prima di ammalarsi. Se da un lato era triste, dall’altro permetteva di tenere a distanza la sofferenza. Nel nostro lavoro l’empatia era un’arma a doppio taglio. Avevo visto colleghi crollare dopo la morte di un paziente cui si erano profondamente affezionati. Bruciati, spezzati dentro.
Mentre lo guardavo Mario inspirò profondamente, l’evidente retrazione del giugulo attestava la fatica con cui i polmoni esausti facevano il loro lavoro, poi registrai una lunga apnea prima del respiro successivo.
Sapevo per esperienza che non mancava molto alla fine
Pochi minuti prima delle 11 il figlio maggiore venne a chiamarmi. Aveva occhiaie profonde e bluastre.
«Papà sta sudando tantissimo» mi informò.
Mario era diabetico e nei giorni precedenti aveva alternato ipo e iperglicemie importanti. Anche sotto quell’aspetto era diventato difficile tenerlo sotto controllo.
«Controllo la glicemia» risposi, prendendo il reflettometro dal carrello della terapia orale. Cinque minuti più tardi, mentre tamponavo il polpastrello da cui avevo prelevato la piccola quantità di sangue necessaria per il test, lessi sul display il risultato: 124 mg/dl, un valore che non giustificava quei sintomi.
«Non è la glicemia il problema» spiegai. «Probabilmente è la pressione arteriosa che sta calando.»
La massima era intorno agli 85 mmHg da ore. Un calo ulteriore poteva significare solo una cosa. La controllai: era a malapena rilevabile. Il battito era flebile e accelerato, nell’estremo tentativo dell’organismo di continuare a irrorare organi devastati dal cancro terminale.
Riflettei un istante prima di parlare
«Cosa volete che faccia?» chiesi loro. «Se avverto il medico probabilmente dovremo dargli dei farmaci per far alzare la pressione.»
Mi riferivo al Revivan, un farmaco il cui nome era tutto un programma. L’avevo visto somministrare a molti pazienti e non ne ricordavo nessuno che fosse sopravvissuto a lungo. Mario non era più in grado di decidere per sé, quindi toccava ai suoi cari farlo al posto suo.
Forse stavo commettendo un errore, forse avrei dovuto avvertire comunque i medici, ma la verità era che non mi fidavo granché della capacità di giudizio di molti di loro. Avrebbero applicato le procedure pensando più alle conseguenze medico legali che alla persona che avevano di fronte: prelievi urgenti, cortisone, infusione di Revivan, magari associata al reperimento di un secondo accesso venoso, tanto per sicurezza. Accanimento terapeutico in salsa difensiva. Un massacro inutile, da qualunque punto di vista lo si guardasse.
L’avevo visto accadere molte volte in passato e di certo l’avrei visto ancora in futuro
«Non facciamo niente.»
Fu il figlio maggiore a parlare, con la stanchezza che filtrava dalla voce come umidità dalla parete di una cantina abbandonata da anni. Gli altri si limitarono ad assentire con lievi cenni del capo.
«Per qualunque cosa, siamo in infermeria» li informai, poi li lasciai soli.
Mario esalò l’ultimo respiro dieci minuti più tardi. Non credo soffrisse più, a quel punto, o almeno preferivo credere che fosse così.
Aveva provato tanto dolore, e non sarebbe dovuto accadere, non in ospedale, ma quando arrivò alla fine della sua strada non era solo. Sperai con tutte le mie forze che questo contasse qualcosa.
Questo racconto è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti, luoghi o persone reali è puramente casuale.
Gennaro Salvati, detto Rino, è Infermiere Case Manager presso il Dipartimento di Medicina Interna, Scienze Endocrino-Metaboliche e Malattie Infettive del Policlinico Umberto I di Roma. Ha pubblicato due romanzi, diversi articoli e alcuni racconti per la rivista Web “The Quatermass Xperiment”.
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